Quando si può definire ‘congrua’ una relazione uomo-animale? Quali sono i ‘parametri’ da tenere in considerazione? Con la zooantropologia si passa da un animale ‘buono da pensare’ (banalizzazione) a un animale che ‘mi fa pensare’.
A cura della Dott.ssa Monica Billi
Medico Veterinario esperto in IAA, Operatore di Etologia Relazionale e Mediatore della relazione uomo-animale.
Quando due individui, indipendentemente dalla specie cui appartengono, entrano in relazione, si attiva una serie di importantissime componenti mentali, emozionali ed empatiche. La capacità di entrare in empatia è una componente fondamentale nella comunicazione con persone e altri animali. Numerosi studi condotti in questo campo hanno dimostrato che ai diversi tipi di relazioni di attaccamento che si stabiliscono durante l’infanzia, corrisponde lo sviluppo di caratteristiche specifiche in termini di regolazione delle emozioni e capacità sociali (e molte altre).
L’etologia riconosce diversi tipi di ‘attaccamento’ sociale. Il concetto fu utilizzato per la prima volta da John Bowlby (1907-1990), psicologo, medico e psicoanalista britannico. Tra gli anni ’50 e ’60, Bowlby scoprì l’etologia, i lavori di Konrad Lorenz sull’imprinting e del biologo, etologo e ornitologo olandese vincitore nel 1973 del Premio Nobel per la Fisiologia e la Medicina, Nikolaas Tinbergen sui comportamenti istintivi. Leggendo questi lavori gli si prospettò un mondo nuovo in cui scienziati di alto profilo studiavano in specie non umane gli stessi problemi su cui lui stava lavorando in campo umano.
In linea con la visione etologica, l’attaccamento può essere definito come un particolare tipo di legame affettivo, durevole nel tempo, che una persona o un animale forma fra sé e un altro specifico individuo, percepito come più forte e più saggio, nel corso della vita.
L’empatia è una dotazione soggettiva che va stimolata, compresa, appoggiata, solo così si svilupperà in modo corretto, sia verso gli animali che verso gli esseri umani.
Il primo passo è riconnettersi alla capacità di sentire e ascoltare noi stessi per ritrovare il giusto modo di vivere la ‘connessione con l’altro’, che significa comprendere e sperimentare la condivisione dello “stato emotivo” con un individuo diverso da noi.
Ecco che nella zooantropologia si passa da un animale ‘buono da pensare’ (banalizzazione) a un animale che “mi fa pensare” che è in grado di dirmi qualcosa che io non so, e modificare la mia prospettiva sul mondo.
Essendo l’essere umano chiuso nella sua concezione di specie, tende a essere antropocentrico. La prospettiva antropocentrata è quella che parte dalle proprie caratteristiche filogenetiche, cioè di specie; diverso è l’antropocentrismo che consiste nel considerare quella prospettiva come assoluta, quindi considerare l’essere umano come misura del mondo e al centro di tutte le ragioni di esso.
I due grandi rischi che sono necessari contenere rappresentano i ‘vincoli’ alla relazione, vale a dire la ‘proiezione’ (non tenere in considerazione fino a mortificare la diversità dell’altro) e la ‘fruizione’ (non tenere conto della soggettività dell’altro). Quindi una relazione si sviluppa pienamente se i presupposti del rispetto della diversità dell’altro e della sua soggettività sono mantenuti. La relazione sta all’interno di questi due parametri: riconoscere la diversità e riconoscere la soggettività; questi sono parametri di una relazione ‘adeguata’.
A volte non siamo particolarmente interessati alla loro ‘alterità’ e spesso i nostri animali diventano oggetti che soddisfano alcuni nostri bisogni. Riflettere sui parametri di cui abbiamo parlato ci permette di capire che non è sufficiente possedere un cane e/o un gatto per conoscerlo.
Quindi una relazione è ‘congrua’ se accetto questa diversità e la valorizzo. L’accettazione della diversità dell’altro è una valorizzazione. L’antropomorfismo sottrae ricchezza all’altro. La diversità è il bene più prezioso nella relazione con gli animali.
Questo aspetto ancora una volta ci deve portare a considerare le generalizzazioni ( i cani, i gatti) come degli errori conoscitivi che non tengono conto delle singole esperienze come formative.
Un cane cresciuto in strada, non avrà caratteristiche uguali al cane cresciuto in allevamento. Spesso in alcuni casi queste differenze sono etichettate come “fobie” perché non riconosciute. La struttura emozionale dipende dalla situazione; animali cresciuti in un determinato ambiente mantengono una certa distanza di fuga nel rapporto con l’essere umano. Azzerare quella distanza di fuga significa mettere quell’animale in una condizione di enorme difficoltà.
C’è molta tendenza ‘pietistica’ per cui pensiamo di essere noi a dare a loro e non di essere i ricevitori, e inoltre manca la capacità di impegnarsi e di accettare la sfida della costruzione relazionale. Il problema della mancanza di consapevolezza impedisce di dare valore alla relazione ponendosi delle domande.
Anche l’equilibrio è un altro parametro che permette di evitare le esagerazioni su molti aspetti, ad esempio quello della morbosità, le persone estremamente morbose creano rapporti chiusi e problematici perché c’è un eccesso di osmosi emozionale, un effetto ansiogeno molto alto e focalizzazione molto forte su tutti gli aspetti e una tendenza a ritualizzare che rendono le relazioni malate.
Per concludere la responsabilità è un altro aspetto importante nelle relazioni, che deve essere di chi è in grado di capire quali possono essere i pericoli per l’altro. Bisogna applicare tutte le azioni preventive pensando di mettersi nella condizione di non rischiare, ragionando sulle probabilità, quindi pensare che un cane o un gatto non hanno l’attenzione di capire che possono rischiare di andare sotto a un’auto, usare gli strumenti che ci permettono di evitare i rischi verso gli animali e le altre persone insegnando il richiamo, usando il guinzaglio.
Un atteggiamento di responsabilità permette di ridurre i rischi di alcune situazioni; gli animali come i bambini sono sotto la nostra responsabilità. Quanto maggiori sono gli strumenti di prevenzione tanto maggiore è la libertà.